Cassazione civile , sez. III, sentenza 07.11.2014 n° 23778 (Michele Iaselli)
La sentenza della Corte di Cassazione, terza sez. civile, assume una particolare rilevanza in quanto chiarisce un importante principio in tema di accertamento e liquidazione di danni non patrimoniali.
La Suprema Corte, nel ritenere fondati alcuni motivi dei ricorso contro la sentenza d’Appello, ribadisce, innanzitutto, che il nostro ordinamento non conosce che una distinzione in materia di danni aquiliani: quella tra danni patrimoniali e non patrimoniali. Ciascuna di queste categorie giuridiche è unitaria.
Ovviamente, tanto il danno patrimoniale quanto quello non patrimoniale possono assumere infinite forme, perché possono incidere su infiniti beni od interessi.
Il danno non patrimoniale pertanto, che è categoria unitaria, si differenzia nei criteri di accertamento e di liquidazione, a seconda dell’interesse concreto su cui vada a cadere.
La natura unitaria del pregiudizio tuttavia non può restare un mero ossequio formale alla dogmatica: e dunque non è consentito moltiplicare le voci di danno chiamando con nomi diversi pregiudizi identici (v. Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008)
Nel caso di specie, chiarisce l’organo giudicante, di fronte ad una lesione permanente della salute, ai fini della liquidazione di tale pregiudizio occorre in astratto tenere conto:
dell’invalidità permanente causata dalle lesioni (danno biologico permanente), la cui liquidazione comprende necessariamente tutti i pregiudizi normalmente derivanti da quei tipo di postumi;
delle sofferenze che, pur traendo occasione dalle lesioni, non hanno un fondamento clinico (la medicina parla, al riguardo, di “dolore non avente base nocicettiva”): si tratterà, ad esempio, della vergogna, della prostrazione, del revanchismo, della tristezza, della disperazione.
Di conseguenza il giudice di merito deve:
liquidare il danno alla salute applicando un criterio standard ed uguale per tutti, che consenta di garantire la parità di trattamento a parità di danno;
variare adeguatamente, in più od in meno, il valore risultante dall’applicazione del criterio standard, al fine di adeguare il risarcimento alle specificità del caso concreto (c.d. ‘personalizzazione del risarcimento’).
L’una e l’altra di tali operazioni vanno compiute senza automatismi risarcitori, juxta alligata et probata, e soprattutto sulla base di adeguata motivazione che spieghi:
quali pregiudizi sono stati accertati;
con quali criteri sono stati monetizzati;
con quali criteri il risarcimento è stato personalizzato.
Ebbene, sostiene la Suprema Corte, questi criteri non sono stati rispettati dalla Corte di merito. Infatti il Tribunale di Forlì, giudice di primo grado, nella valutazione del danno ha così provveduto:
(a) liquidato il danno biologico;
(b) poi liquidato il danno morale;
(c) poi aumentato l’uno e l’altro per tenere conto delle specificità del caso concreto;
(d) quindi liquidato una ulteriore somma per tenere conto del danno alla vita di relazione, sessuale, estetico ed esistenziale.
La Corte d’appello ha ritenuto corretta questa liquidazione, ritenendo che il Tribunale aveva opportunamente aumentato il criterio standard di risarcimento, prendendo in considerazione non solo le conseguenze lesive di carattere clinico ma anche quelle di carattere psicologico, estetico, relazionale, riferibili tutte al danno alla salute. In questa liquidazione il Tribunale avrebbe, secondo la Corte d’appello, dato atto di aver considerato “la gravità della situazione (…), il danno estetico, la completa compromissione della sfera sessuale, relazionale ed affettiva del soggetto”.
Tale motivazione, secondo la Suprema Corte, è erronea in diritto, ed insufficiente sul piano dell’argomentazione.
È erronea in diritto perché ha liquidato non due, ma più volte pregiudizi identici, chiamandoli con nomi diversi.
In rerum natura, il danno alla salute non consiste in un numero percentuale. Esso consiste invece nel complesso delle privazioni che la vittima dovrà subire nella vita quotidiana, lavorativa e sociale per effetto della menomazione. Così, ad esempio, lo zoppicare è un danno biologico; la perduta possibilità di curare da sé la propria persona è un danno biologico; lo sfregio permanente del volto è un danno biologico.
È solo per convenzione, e per garantire un minimo di obiettività nella liquidazione del danno, che questi pregiudizi vengono quantificati in misura percentuale, ipotizzando per fictio iuris che sia pari a ‘100’ la validità d’una persona sana, dello stesso sesso e della stessa età della vittima.
Ciò vuoi dire che la somma di denaro accordata alla vittima di lesioni personali a titolo di risarcimento del danno da invalidità permanente è necessariamente intesa a ristorare la perdita delle attività che quella menomazione necessariamente ha comportato per la vittima, ed avrebbe comportato comunque quale che fosse stata la persona che l’avesse subita.
Nel caso di specie il Tribunale (e la Corte d’appello che ne ha condiviso l’operato), dopo aver accertato la sussistenza d’una invalidità permanente del 95%, ed avere già solo per questo fatto personalizzato il risarcimento del danno biologico elevandone l’ammontare rispetto alla misura standard, ha liquidato alla vittima una ulteriore somma dichiarando che con essa intendeva risarcire:
il danno psicologico;
il danno estetico;
il danno relazionale;
la compromissione della sfera sessuale;
la compromissione della sfera affettiva.
Ma analizzate singolarmente nessuna delle suddette voci di danno, tuttavia, è in teoria esclusa dalle conseguenze d’una lesione della salute.
(Altalex, 9 dicembre 2014. Nota di Michele Iaselli)