Cassazione civile , sez. VI – 1, sentenza 04.09.2014 n° 18722 (Barbara Vizioli)
La vicenda in esame trae spunto da una sentenza della Corte d’Appello di Roma, che, in sede di rinvio dalla Corte di Cassazione, nel procedimento di divorzio relativo ai coniugi C.R. e S.R. poneva a carico di quest’ultimo un assegno pari a € 200,00 mensili in favore della moglie, in virtù dell’inadeguatezza dei mezzi della C., comparati con quelli dell’ex coniuge e della breve durata (soli due anni) del vincolo coniugale.
Proponeva ricorso la moglie avverso tale sentenza deducendo la violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5 per l’erronea valutazione dei criteri indicati dal comma 6 della norma predetta con particolare riferimento all’errata considerazione dei redditi e delle consistenze patrimoniali della ricorrente stessa in correlazione con l’assenza di valutazione comparativa dei medesimi elementi in capo all’ex marito. In particolare non era stato valutato che lo S. godeva di un reddito 16 volte superiore a quello della moglie e di un patrimonio ben più cospicuo a fronte della modestissima condizione reddituale della C. e della mancanza di qualsiasi redditualità presente e futura dagli immobili di sua proprietà.
La moglie ricorreva in Cassazione anche per l’omessa pronuncia sulla richiesta di attribuzione di una quota del TFR, ex art. 12 bis L. n. 898 del 1970.
Con il terzo ed ultimo motivo, la C. censurava la statuizione relativa alla compensazione delle spese di lite, operata dalla Corte d’Appello.
Come è noto, l’art. 5 co. 6 L. 898/1970 così recita: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.”
E’ noto, invero, che il diritto all’assegno divorzile trova il suo fondamento nella solidarietà post-coniugale, quale espressione del più generale dovere di solidarietà economico-sociale sancito dall’art. 2 Cost., dalla quale sorge l’obbligo di corrispondere un assegno periodico a favore dell’ex coniuge privo di mezzi adeguati, nonché di riparare allo squilibrio economico derivante dal divorzio, in piena conformità al valore del matrimonio come indicato dall’art. 29 Cost.
La giurisprudenza, muovendo dal carattere assistenziale dell’assegno di divorzio, afferma che ne sono requisiti:
la mancanza di mezzi adeguati da parte del richiedente per la conservazione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio;
l’impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive.
Il diritto all’assegno divorzile, quindi, non spetta soltanto al coniuge indigente ma anche al coniuge che non sia in grado di mantenere il tenore di vita che aveva in costanza di matrimonio, a causa di una significativa differenza di reddito rispetto all’altro coniuge.
Quel che rileva è l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle condizioni economiche del richiedente, intese in senso ampio come standard di vita non solo economico ma anche sociale, rispetto a quelle godute durante la vita in comune.
Sulla base di quanto sopra premesso, la valutazione della debenza dell’assegno di divorzio deve certamente essere incentrata proprio su tali criteri assistenziali e, in linea di massima, non dovrebbe soffrire limitazioni temporali.
Tuttavia, se pure è vero che l’obbligo di solidarietà post-coniugale non viene meno per il mero decorso del tempo, sulla base dell’intervallo temporale intercorso tra la separazione e la domanda di divorzio, il legislatore si è preoccupato di evitare che a seguito di matrimoni di durata molto breve, i c.c.d.d. “matrimoni-lampo”, uno dei coniugi potesse ottenere il diritto ad una rendita automatica e sostanzialmente parassitaria a carico dell’altro partner.
E’ per questo che l’art. 5 co. 6 L.D., è stato integrato dall’art. 10 della L. 74/1987 che impone al Giudice di disporre la somministrazione dell’assegno, valutando tutti i criteri previsti dalla norma “anche in rapporto alla durata del matrimonio”.
Vi è da dire che la durata del matrimonio non opera come un ulteriore autonomo criterio di determinazione del contributo divorzile, ma costituisce piuttosto l’arco temporale nel quale devono essere collocati gli altri criteri.
Inoltre, deve escludersi la necessità di una puntuale considerazione da parte del Giudice, che dia adeguata giustificazione della propria decisione, di tutti, contemporaneamente e nella stessa misura, i parametri di riferimento indicati dall’art. 5, comma 6, della legge 6 marzo 1987, n. 74. (Cass. civ. Sez. I, 05/02/2014, n. 2546).
Dunque, come già anticipato, il riconoscimento del diritto all’assegno in questione, “è condizionato della mancanza di mezzi adeguati o della impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, mentre gli altri criteri costituiti dalle condizioni dei coniugi, dalle ragioni della decisione, dal contributo personale ed economico di ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, dal reddito di entrambi, valutati unitariamente e confrontati alla luce del paradigma della durata del matrimonio, sono destinati ad operare solo se l’accertamento dell’unico elemento attributivo si sia risolto positivamente, e quindi ad incidere unicamente sulla quantificazione dell’assegno stesso”. (Cass. civ. 4040/2003, conf. tra le tante, n. 15611/2007, n. 14056/2008; Cass. n. 14004/2002; n. 6541/2002; n. 7068/2001 e n. 6660/2001).
La giurisprudenza più recente di questa Corte, con un indirizzo ormai più che consolidato (tra le altre, Cass. Civ. n. 159/98), ha statuito che, “ai fini della durata del matrimonio deve farsi riferimento all’intera durata del vincolo che si esaurisce con la pronuncia del divorzio e non con la separazione personale.….ne consegue che nella nozione di contributo dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di entrambi, deve comprendersi non solo quello fornito nel periodo di convivenza coniugale, ma anche quello prestato in regime di separazione.” (Cass. Civ. sent. n. 21805/2006).
In conclusione, la durata del matrimonio costituisce di regola una circostanza che influisce sulla determinazione dell’ammontare dell’assegno e non già sul suo riconoscimento essendo infatti irrilevante – ai soli fini del riconoscimento del diritto – la breve durata del matrimonio medesimo, a meno che la comunione materiale e spirituale tra i coniugi non si sia potuta mai costituire, per responsabilità del richiedente. (Cass. civ. Sez. I, Sent., 22-03-2013, n. 7295)
Il dato normativo, indizio della volontà del legislatore, della “<<durata del matrimonio>> in luogo della <<durata della convivenza>> deve essere ritenuto prevalente su altre circostanze nella determinazione delle attribuzioni al coniuge anche in ordine alla quota del TFR erogato all’altro coniuge.” (Cass. civ. Sez. I, 31/01/2012, n. 1348)
In ogni caso, nella quantificazione della corresponsione patrimoniale, non si potrà prescindere dalla verifica della durata di un’eventuale convivenza more uxorio antecedente alle nozze.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamate a pronunciarsi in tema di assegno divorzile, con la sentenza 29 novembre 1990, n. 11490 ebbero a statuire che a seguito della disciplina introdotta dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 10, modificativo della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, il presupposto per concedere l’assegno è costituito dall’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente (tenendo conto non solo dei suoi, redditi, ma anche dei cespiti patrimoniali e delle altre utilità di cui può disporre) a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso dei matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio, senza che sia necessario uno stato di bisogne dell’avente diritto, il quale può essere anche economicamente autosufficiente, rilevando l’apprezzabile deterioramento in dipendenza del divorzio delle condizioni economiche del medesimo che, in via di massima, devono essere ripristinate, in modo da ristabilire un certo equilibrio. La misura concreta dell’assegno – che ha carattere esclusivamente assistenziale – deve essere poi fissata in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri enunciati dalla legge (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio) con riguardo al momento della pronuncia di divorzio.
La sentenza delle SS.UU. quanto alla individuazione del tenore di vita in relazione al quale deve valutarsi l’attribuibilità dell’assegno di divorzio, lo ha espressamente indicato in quello goduto “in costanza di matrimonio o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio”. (Cass. Civ. 8053/2011).
D’altro canto, secondo il costante orientamento di questa Corte (Cass. 24 febbraio 2010, n. 4531; 19 settembre 2006, n. 20256; 7 febbraio 2006, n. 2626; 24 dicembre 2002, n. 18327; 7 maggio 1999, n. 4570; 22 aprile 1998, n. 4094) in materia di assegno di mantenimento a favore del coniuge separato ai sensi dell’art. 156 cod. civ., ai fini della determinazione del tenore di vita al quale l’assegno va rapportato e della sua attribuzione e della determinazione (e successiva rideterminazione), non solo occorre tener conto dell’incremento dei redditi di uno di essi anche se verificatosi nelle more del giudizio di separazione, ma anche di quelli intervenuti successivamente, in quanto durante la separazione personale non viene meno la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matrimonio.
Tali affermazioni, che in linea tendenziale porterebbero a dare rilievo, ai fini della determinazione del tenore di vita, effettivo o potenziale, del coniuge richiedente l’assegno di divorzio, ad ogni tipo d’incremento reddituale che intervenga prima del venir meno del vincolo matrimoniale, sono state temperate, derogando alla loro onnicomprensività, da molteplici decisioni di questa Corte, formanti ormai un diffuso orientamento (da ultimo Cass. 19 novembre 2010, n. 23508; 4 ottobre 2010, n. 20582; 26 settembre 2007, 20204; 17 novembre 2006, n. 24496; 6 ottobre 2005, n. 19446; 28 gennaio 2004, n. 1487), secondo le quali a quei fini deve tenersi conto dei soli incrementi delle condizioni patrimoniali e reddituali del coniuge obbligato che costituiscano naturale e prevedibile sviluppo dell’attività svolta durante la convivenza matrimoniale.
Nel caso di specie la Suprema Corte riteneva inammissibile il primo motivo di ricorso proposto dalla C. in quanto la comparazione effettuata dai giudici di secondo grado risultava eseguita con valutazione incensurabile. Osservavano, infatti, gli Ermellini, che Corte d’Appello, sulla base del rinvio operato dalla Corte di Cassazione, aveva verificato l’inadeguatezza dei mezzi della ricorrente rispetto al tenore di vita goduto durante il matrimonio e, ai fini della quantificazione, aveva tenuto conto degli indici reputati rilevanti tra quelli indicati nella L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6 non essendo tenuta a ripercorrerli analiticamente tutti. In particolare, aveva considerato prevalente sugli altri il criterio della durata, molto breve, del matrimonio e sull’autonomo lungo percorso di vita vissuto da ciascuna delle parti prima del divorzio.
Quanto alla censura in ordine alla richiesta di attribuzione di una quota del TFR veniva osservato che non era stata mai dedotta l’indicazione specifica di istanze istruttorie diverse dall’indagine patrimoniale. Al riguardo, precisava, non è sufficiente richiedere esplorativamente indagini patrimoniali, senza la specificazione dell’oggetto concreto delle ricerche che s’intendono eseguire.
In ordine al terzo motivo, in ordine alla compensazione delle spese, veniva statuito che la motivazione della sentenza impugnata era adeguata e, quindi, se ne escludeva la censurabilità.
In conclusione, la Corte rigettava il ricorso e compensava le spese.