La privazione del diritto fondamentale della libertà personale, nel caso di arresto in quasi flagranza, può essere giustificata solo dalla diretta percezione della condotta del reo da parte di colui che procede all’inseguimento ed al conseguente arresto. E’ quanto hanno stabilito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza del 21 settembre 2016, n. 39131.
Come risaputo, il nostro codice di procedura penale, all’art. 382, prende in esame due ipotesi di flagranza di reato; la flagranza vera e propria, che si ha qualora taluno venga colto nell’atto di commettere il reato, e la c.d. quasi-flagranza, che ricorre quando chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone, ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima.
La fattispecie prende in considerazione il caso dello stato di flagranza costituito dall’inseguimento dell’autore del reato: secondo un primo orientamento, non sussiste la condizione di quasi flagranza qualora l’inseguimento dell’indagato da parte della polizia giudiziaria sia stato iniziato non già a seguito e a causa della diretta percezione dei fatti da parte della polizia medesima, ma per effetto e solo dopo l’acquisizione di informazioni da parte di terzi (Cass. pen., Sez. III, 24 giugno 2015, n. 34899; Cass. pen., Sez. I, 3 ottobre 2014, n. 43394 e altre).
Questo in quanto la provvisoria privazione della libertà personale, ad iniziativa della polizia giudiziaria, che avvenga in carenza di un provvedimento motivato da parte dell’autorità giudiziaria, è un istituto di carattere eccezionale e le previsioni del codice di rito che disciplinano l’arresto sono da considerare come di stretta interpretazione.
Opposto orientamento afferma invece che possa ravvisarsi flagranza di reato qualora subito dopo la commissione del fatto, la polizia giudiziaria prontamente intervenga, assuma le informazioni del caso dalla persona offesa o da testimoni presenti al fatto e immediatamente si ponga all’inseguimento dell’autore del reato, pervenendo al suo arresto (Cass. pen., Sez. III, 6 maggio 2015, n. 22136; Cass. pen., Sez. I, 24 novembre 2011, n. 6916 e altre), in quanto l’essenza del concetto di flagranza o quasi flagranza risiede nella relazione di continuità tra la commissione del delitto e la reazione diretta ad arrestarne l’autore.
Sebbene tale ultima impostazione risponda all’esigenza di assicurare la pronta reazione istituzionale alla repressione dei reati, le Sezioni Unite accolgono l’orientamento contrario: secondo gli ermellini, l’inseguimento “fisico” che da origine alla quasi flagranza, origina subito dopo il reato, sicché l’inseguitore deve necessariamente avere percezione personale, in tutto o in parte, del comportamento criminale del reo nella sua attualità.
Conseguentemente tale inseguimento non può essere equiparato a quello in cui la polizia giudiziaria, che sia stata informata dalla persona offesa o da terzi, circa la commissione di un reato da parte di taluno, si metta sulle tracce di quest’ultimo a distanza di tempo. Per utilizzare le parole della Suprema Corte: “La eccezionalità dell’arresto in flagranza […] si rinsalda alla considerazione che la privazione della libertà a opera della polizia giudiziaria ovvero, nei casi ammessi, da parte del privato, trova ragionevole giustificazione nella considerazione (da parte di chi procede all’arresto), della condotta del reo, nell’atto stesso della commissione del delitto, ovvero nella diretta percezione di condotte e situazioni personali dell’autore del reato, immediatamente correlate alla perpetrazione e obiettivamente rivelatrici della colpevolezza”.