Il Tribunale di Pescara dichiarava C. S. colpevole del reato di bancarotta fraudolenta documentale e la condannava alla pena di anni tre di reclusione, oltre alle pene accessorie di legge.
Nel caso di specie, la prevenuta era, formalmente, amministratrice della società fallita, ma, di fatto, l’impresa risultava essere gestita dal marito della C.S., il quale, in sede di escussione testimoniale, oltre a rappresentare ciò, precisava che la decisione di far assumere la carica sociale in capo alla coniuge/imputata rispondeva all’esigenza di accedere, più agevolmente, al credito bancario.
Necessario accertamento dell’elemento psicologico
In seguito, la Corte d’Appello de L’Aquila riformando parzialmente la sentenza di primo grado, riqualificava il fatto di reato nell’ipotesi meno grave di bancarotta documentale semplice (ex art. 217 L.F.). Tale decisione fondava, innanzitutto, sulla confutazione del ragionamento seguito dal Tribunale di Pescara, secondo cui la colpevolezza dell’amministratore formale andrebbe affermata già solo sul presupposto della accettazione della carica sociale (in forza di una presunzione semplice!), sul rilievo che la posizione di garanzia che un soggetto va a ricoprire determina l’assunzione degli obblighi di legge gravanti sull’amministratore.
Invero, nella sentenza in esame si legge che il principio appena citato appare ormai superato dal fatto che, ai fini della responsabilità per il reato ex art. 216 comma 1, n. 2, L. F. è necessaria ed imprescindibile la ravvisabilità del dolo (anche di tipo eventuale) rispetto alla commissione di reati puniti a tale titolo.
In particolare, il Giudicante di seconde cure sottolinea al riguardo che “in materia di reati fallimentari l’amministratore di diritto risponde del reato di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione o omessa tenuta della contabilità anche solo per la posizione di cui è formalmente investito, in quanto gravato dall’obbligo di regolare tenuta delle scritture, a patto che sia fornita la prova della consapevolezza della sottrazione, della omessa o irregolare tenuta (in tal senso Cass. Sez. V 30.10.13 n. 642)”.
In altri termini, da ciò si evince che, ai fini di un giudizio di responsabilità in ordine al reato in esame, è necessario dimostrare che l’amministratore di diritto avesse accettato (o comunque fosse consapevole circa) la commissione di azioni delittuose da parte dell’amministratore di fatto, le quali non “sono certo automatica conseguenza del fatto che un soggetto si presti a ricoprire, per le più svariate ragioni (anche non illecite) la carica formale “
In mancanza di tale prova da parte della Pubblica Accusa, dunque, ne consegue allora che all’amministratore di diritto potrà essere addebitata solamente la colpa in relazione alla negligenza dimostrata in relazione al ruolo dallo stesso ricoperto.
E, guardando al caso di specie, come già anticipato, dall’istruttoria è emerso che l’imputata (amministratrice di diritto) era totalmente ignara degli atti gestori di fatto posti in essere dal proprio coniuge (amministratore di fatto), né esercitava all’interno della società fallita alcun atto amministrativo.
Dolo generico o dolo specifico?
Come si può evincere analizzando la sentenza oggetto della presente analisi, la Corte d’appello de L’Aquila ha dunque condiviso l’orientamento giurisprudenziale prevalente secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta documentale, è necessario provare la sussistenza, in capo all’amministratore di diritto, del dolo generico, nei termini sopra specificati.
In realtà, sul punto, è opportuno segnalare una recente sentenza, pronunciata dalla Corte di Cassazione, Sez. V, 07 luglio 2015, n. 50098, nella quale viene applicato un principio giurisprudenziale ancor più garantistico, nel senso che l’omessa tenuta della contabilità interna integra gli estremi del reato in parola solo qualora si accerti che scopo dell’omissione è quello di recare pregiudizio ai creditori (al pari delle condotte di sottrazione, distruzione o falsificazioni di libri o scritture contabili)
Dunque, alla luce di quest’ultimo citato orientamento, per il reato previsto dall’art. 216, comma 1, n. 2, L. F. sarebbe necessario provare il c.d. dolo specifico, e non già il semplice dolo generico.
A ben vedere, tale ricostruzione del profilo soggettivo sembra maggiormente condivisibile, in quanto altrimenti risulterebbe impossibile distinguere la fattispecie della bancarotta fraudolenta documentale da quella analoga sotto il profilo materiale, prevista dall’art. 217 L..F., punita sotto il titolo di bancarotta documentale semplice.
Ci si auspica, a questo punto, che le Sezioni Unite si pronuncino, al più presto, in merito al suddetto contrasto giurisprudenziale.