Risarcibile il danno di immagine per erronea iscrizione nel registro dei debitori inadempienti.
Il danno deve, tuttavia, essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori, anche mediante presunzioni, non potendo mai considerarsi “in re ipsa”.
E’ quanto ha stabilito la Cassazione Civile, Sezione III,, con la sentenza 6 luglio 2017, n. 16659
Il danno deve, tuttavia, essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori, anche mediante presunzioni, non potendo mai considerarsi “in re ipsa”.
Il fatto
La Corte d’appello riformava decisione del Tribunale ed accoglieva appello di una società che richiedeva il risarcimento del danno all’immagine contro una banca, colpevole di averla erroneamente iscritta tra i debitori inadempienti nel registro della banca dati privata. La banca ricorreva in Cassazione.
La decisione
La questione di diritto sottoposta alla Corte concerne la risarcibilità del danno non patrimoniale in quanto conseguenza immediata e diretta della lesione di diritti fondamentali della persona, garantiti da copertura costituzionale, con riferimento -al caso di specie – alla violazione del “diritto alla immagine” od alla “reputazione sociale” di una società commerciale (inteso come diritto della personalità, rinveniente fondamento nell’art. 2 Cost. e nell’art. 8 paragr. 1 della Carta dei diritti fondamentali della UE).
Si tratta di stabilire se trattasi di danno-evento, o danno “in re ipsa” (coincidente con la condotta violativa del diritto, e cioè con il perfezionamento della fattispecie illecita) ovvero come “danno conseguenza” (ossia come ulteriore “prodotto”, effetto ontologicamente distinto, e cronologicamente successivo, rispetto alla violazione del diritto, cioè al perfezionamento della fattispecie illecita). Il criterio causale, fondato sulla relazione “condotta materiale – evento-lesivo – conseguenza dannosa” (artt. 1223 e 2056 c.c.) si applica a qualsiasi violazione di un interesse giuridicamente suscettibile di protezione secondo l’ordinamento giuridico, senza nessuna disitnzione in termini di prova tra danno “patrimoniale” e “non patrimoniale”, non rilevando in contrario, ai fini dell’accertamento delle conseguenze pregiudizievoli, la natura non economica del bene protetto.
Con il noto aresto delle Sezioni Unite, n. 26972 del 11/11/2008, la Corte chiarì definitivamente che l’art. 2059 c.c. opera in tre casi: 1) illecito astrattamente configurabile come reato, ex art. 185 coma 2 c.p.; 2) illecito, non qualificabile come reato, ma che per espressa previsione di legge impone il ristoro di un danno non patrimoniale; 3) illecito – non bagatellare- che abbia leso diritti inviolabili della persona, oggetto di tutela costituzionale). La Corte lasciò tuttavia integri gli elementi della fattispecie costitutiva dell’illecito ex art. 2043 c.c. (la condotta illecita, l’ingiusta lesione di interessi tutelati dall’ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell’interesse leso).
Il principio ha trovato seguito nella giurisprudenza di legittimità, per cui può conclusivamente affermarsi che il “danno non patrimoniale”, costituendo anch’esso pur sempre un danno-conseguenza, deve essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori, anche mediante presunzioni, non potendo mai considerarsi “in re ipsa” (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 20987 del 08/10/2007; Sez. 3, Sentenza n. 10527 del 13/05/2011; Sez. 3, Sentenza n. 13614 del 21/06/2011; Sez. 1, Sentenza n. 7471 del 14/05/2012; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 21865 del 24/09/2013; Sez. 3 -, Sentenza n. 20643 del 13/10/2016).
La concreta interferenza sulle esigenze di accesso del credito coniugata con la effettiva percepibilità, da parte degli utenti della banca-dati, della segnalazione arrecante il discredito sociale, ha inteso accertare gli effetti pregiudizievoli di natura non patrimoniale prodotti dalla condotta illecita della banca consistiti, non nella perdita di occasioni di finanziamento (suscettibile comunque di valutazione patrimoniale anche ove considerata in termini di “chance”), sibbene nella situazione in cui si era venuta a trovare la società nell’ambiente in cui operava che la qualificava come soggetto economico, se non impresentabile, comunque a ridotta affidabilità rispetto alle società regolarmente adempienti agli obblighi restitutori delle rate di finanziamento o dei canoni di leasing.
La Corte segnala un precedente, la n. 12929 del 04/06/2007, che ha ribadito la distinzione tra evento lesivo e danno-conseguenza, puntualizzando come anche nella lesione della “reputazione personale” (che si manifesta nel “foro interno” come sentimento di appartenenza all’organismo collettivo dei titolari degli organi amministrativi e della “reputazione sociale”, intesa come immagine di serietà ed affidabilità dell’ente collettivo proiettata all’esterno) della persona giuridica o di centri dotati comunque di livelli differenti di soggettività, il danno-conseguenza deve essere provato, rimanendo esclusa la ipotesi del danno “in re ipsa”, ben potendosi pervenire anche attraverso elementi presuntivi alla dimostrazione della conseguenza pregiudizievole derivata -ex art. 1223 c.c.– all’ente collettivo dalla “deminutio” della propria immagine determinata dalla comunicazione della notizia lesiva; il danno è da individuarsi, quanto alla lesione della reputazione personale, nella “incidenza negativa sull’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente collettivo” che “rappresenta un danno non patrimoniale che non si identifica nella lesione dell’immagine in sè, ma ne rappresenta una conseguenza a detta lesione ricollegata da un nesso causale”; quanto alla lesione della reputazione sociale, invece, il anno viene realizzarsi nella effettiva diffusione della notizia screditante, in relazione alla permanenza della segnalazione negativa nella banca-dati.