Il caso. Sospetta che il primo figlio avuto nel matrimonio non sia suo ma prima di intentare l’azione di disconoscimento si procura in maniera occulta la prova genetica di ciò. La ottiene raccogliendo per strada due mozziconi di sigaretta gettati via dal figlio tramite i quali risale alla sua identità genetica. Inizia il giudizio di disconoscimento nel quale vengono prodotti i risultati ematologici raccolti, ma il figlio si rivolge al Garante per la Privacy per ottenere il blocco e la cancellazione dei dati genetici a lui attribuiti, ritenendo che gli stessi siano stati trattati in modo non conforme alle disposizioni in materia di protezione dei dati personali.
La sentenza del Garante proibisce ogni ulteriore attività di trattamento dei dati genetici del figlio da parte dell’agenzia investigativa e del padre, che avevano prelevato i campioni biologici e utilizzandoli senza il consenso del titolare per il test del DNA, e per la comparazione con il DNA dei due figli nati dal secondo matrimonio. Inoltre vieta espressamente ogni ulteriore operazione volta al trattamento dei medesimi dati nell’ambito del procedimento civile in corso di disconoscimento di paternità.
Il Tribunale di Roma, in sede di appello, conferma la sentenza del Garante affermando che solo con un’autorizzazione ad hoc e con il consenso informato dell’interessato, i dati genetici del primo figlio avrebbero potuto essere trattati per fare ricerche sul DNA ed eseguire la comparazione con quello degli altri fratelli unilaterali. Tutto ciò in forza dell’art. 90 del d.lgs. n. 196 del 2003, il quale prevede che il trattamento dei dati genetici da chiunque effettuato è consentito nei soli casi previsti da apposita autorizzazione rilasciata dal Garante sentito il Ministro della salute, che acquisisce, a tal fine, il parere del Consiglio superiore di sanità. L’autorizzazione di cui al comma 1 individua anche gli ulteriori elementi da includere nell’informativa ai sensi dell’articolo 13, con particolare riguardo alla specificazione delle finalità perseguite e dei risultati conseguibili, anche in relazione alle notizie inattese che possono essere conosciute per effetto del trattamento dei dati, e al diritto di opporsi al medesimo trattamento per motivi legittimi”.
La sentenza n. 21014/2013 della Cassazione. Il padre ricorre in Cassazione, sostenendo che il trattamento dei dati genetici rientra nel genere dei “dati personali in ambito sanitario”, e ad essi si applica la più generale disciplina dei dati sensibili sanitari.
Pertanto ai sensi dell’art. 24 del d.lgs. n. 196 del 2003 comma primo, lettera f), il consenso dell’avente diritto non è necessario quando il trattamento è richiesto per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria. L’unico limite sarebbe contenuto nel successivo art. 26, secondo il quale in presenza di dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, l’utilizzazione è limitata alla tutela di un diritto di pari rango rispetto a quello dell’interessato, o comunque di un diritto della personalità o inviolabile o fondamentale. Non sarebbe stata pertanto necessaria un’autorizzazione ad hoc in quanto tali dati potevano essere trattati in forza dell’autorizzazione generale del Garante n. 2 del 2002 relativa al trattamento dei dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.
Nel respingere le istanze del padre, la Corte distingue i “dati genetici” dai così detti “dati sensibili” i quali sono idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni e organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale (art. 4 d.lgs n. 196 del 2003). I dati genetici possono anche corrispondere in parte con i dati sensibili ma la sovrapponibilità tra le due categorie è relativa e non integrale. Infatti, tramite i dati genetici di una persona si ottiene un corredo identificativo unico ed esclusivo, informazioni non necessariamente si riconducono in quelle di natura sanitaria. Per questi motivi la legge sulla Privacy ha previsto la procedura di cui all’art. 90 che, non solo prevede un’autorizzazione speciale, ma individua gli elementi da includere nell’Informativa tra cui la specifica finalità e i risultati conseguibili.
In conclusione, al trattamento dei dati genetici a carattere non sanitario non si applica l’art. 21, lettera f) del d.lgs. 196 del 2003, che consente l’utilizzo dei dati senza consenso (previa autorizzazione generale del Garante) al fine di far valere un diritto in sede giudiziaria. La norma, si riferirebbe genericamente ai dati personali mentre per i dati genetici la legge ha previsto una disciplina derogatoria.
L’acquisizione del DNA da parte del padre effettuata allo scopo di decidere se iniziare l’azione di disconoscimento di paternità, non è inoltre riconducibile all’esercizio in sede giudiziale di un diritto della personalità di rango almeno pari a quello del contro interessato, in quanto finalizzata esclusivamente a valutare le opportunità di successo nel futuro giudizio. L’indagine sul DNA poteva, infatti, essere effettuata in corso di causa, dove un eventuale rifiuto ingiustificato di sottoporsi all’esame da parte del figlio, unitamente agli altri elementi valutati dal giudice, avrebbe avuto un rilievo probatorio ai sensi dell’art. 116 c.p.c.
(Altalex, 25 settembre 2013. Nota di Giuseppina Vassallo)