Si verte in un caso di ingiuria per il quale il Giudice di Pace di Chiusa, con sentenza in data 28 gennaio 2014, aveva provveduto a dichiarare l’estinzione del reato per tenuità del fatto.
Nell’ipotesi considerata il fatto di particolare tenuità (con conseguente dichiarazione di estinzione del reato – emendata dalla Cassazione in pronuncia di non doversi procedere – in applicazione dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000) era stato individuato anche nell’assenza della persona offesa. Da questa circostanza si era infatti ricavata la sua mancanza di “interesse al procedimento” e la non persistenza di una “richiesta di risarcimento e di condanna dell’imputato”; a (necessario) corredo si era rilevato che il danno causato dalla condotta incriminata risultava “minimo” e che l’imputato, di giovane età, aveva trasgredito la legge penale per la prima volta.
Risulta decisivo, peraltro, che la tenuità del fatto dovesse essere valutata dopo l’esercizio dell’azione penale, rendendosi necessario che l’imputato e la persona offesa non vi si opponessero; si sarebbe cioè reso necessario – questo il profilo sollevato dalla Procura – che entrambi prestassero il loro consenso a quel tipo di definizione del procedimento. In altri termini, per escludersi l’opposizione (e con essa la declaratoria di particolare tenuità) si richiederebbe un consenso esplicito, non potendo bastare l’assenza della persona offesa ad inferire il dissenso della stessa, il tutto per asserita violazione dell’art. 34, comma 3, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274. La norma testualmente prevede che “Se è stata esercitata l’azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono”. Si richiama, all’uopo, l’insegnamento della Cassazione secondo il quale “l’estinzione [sic] del procedimento non può aver luogo “senza il consenso” della persona offesa, essendo irrilevante che essa “non è comparsa o è irreperibile””.
Proprio questo è il punto critico, sul quale il provvedimento in commento attesta un passo fermo della Suprema Corte.
In breve, la questione della quale sono state investite le Sezioni Unite è enunciabile nei seguenti termini: “Se, dopo l’esercizio dell’azione penale, la mera mancata comparizione della persona offesa alla udienza davanti al giudice di pace, in assenza di altri dati significativi, impedisca di ritenere che la stessa non si opponga alla definizione del procedimento per particolare tenuità del fatto a norma dell’art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274”.
Si riportano in motivazione due distinti orientamenti maturati nel corso del tempo.
Secondo un primo orientamento, la mancata comparizione della persona offesa in udienza non può essere interpretata come una volontà di non opposizione rispetto ad una valutazione del giudice meramente eventuale circa la particolare tenuità del fatto, trattandosi di un fatto neutro, non espressivo di alcuna specifica volontà.
Secondo altro filone giurisprudenziale, la decisione della persona offesa di non comparire in udienza implica una volontà di rinuncia all’esercizio di tutte le facoltà processuali previste dalla legge, tra cui quella di opporsi all’esito del procedimento con estinzione per particolare tenuità del fatto. Del resto – si aggiunge – l’art. 34 non richiede necessariamente la presenza della persona offesa (Sez. 4, n. 25917 del 17/06/2003, Ritucci, Rv. 225676), sicché nulla osterebbe, in questo caso, all’individuazione di un’ipotesi di particolare tenuità del fatto.
Per meglio indirizzare la questione di diritto, il Collegio rileva “la natura eminentemente “conciliativa” della giurisdizione di pace, che dà risalto peculiare alla posizione dell’offeso dal reato, tanto da attribuirgli, nei reati procedibili a querela, un (singolare) potere di iniziativa nella vocatio in jus (art. 21 d.lgs. n. 274 del 2000)”. Il rilievo, come detto, orienta la soluzione ma non la individua; decisivo, ad avviso dei Giudici, è il difetto di impostazione che accomuna l’approccio al tema secondo quanto tracciato dai due orientamenti indicati, ovvero il comune presupposto secondo il quale l’esito liberatorio prospettato (operante in forza dell’art. 34 cit.) richieda l’adesione – implicita o esplicita – della persona offesa (o dell’imputato). Viceversa è possibile affermare, sulla scorta dell’ordinanza n. 63/2007 della Corte Costituzionale, che l’art. 34, comma 3, “prevede, ai fini dell’operatività dell’istituto de quo, nella fase successiva all’azione penale, non già una condizione positiva (il consenso), ma una condizione negativa (la non opposizione; se l’imputato e la persona offesa non si oppongono)”. Nondimeno, va chiarito che il potere di inibizione dell’esito liberatorio è soggetto a precise ed importanti limitazioni: “l’opposizione di cui si discute, incidendo sulla procedibilità dell’azione penale, rientra tra il genere di atti “idonei a determinare il contenuto della pronuncia” (per questa qualificazione, in termini generali, v. Sez. U, n. 47923 del 29/10/2009, D’Agostino, in particolare al p.6 del Considerato in diritto); con la conseguenza che possono dirsi abilitati a esprimere una simile volontà la persona offesa (e l’imputato) personalmente o a mezzo di procuratore speciale, e non il difensore o altri soggetti, fatta eccezione, beninteso, per i casi di rappresentanza della persona offesa minore, interdetta o inabilitata (v. art. 90, comma 2, cod. proc. pen.)”.
Le Sezioni Unite concludono pertanto precisando che “Nel procedimento davanti al giudice di pace, dopo l’esercizio dell’azione penale, la mancata comparizione in udienza della persona offesa, regolarmente citata o irreperibile, non è di per sé di ostacolo alla dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale per la particolare tenuità del fatto in presenza dei presupposti di cui all’art. 34, comma 1, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274”.