La Legge 20 maggio 2016, n. 76 (pubblicata sulla G.U. n. 118 del 21 maggio 2016 ) – cd. legge ‘Cirinnà’ – introduce nel nostro ordinamento giuridico due istituti (le unioni civili e le ‘convivenze’) che hanno ricadute importanti non solo sotto il profilo civilistico, ma anche quello fiscale.
Su tale ultimo versante, peraltro, il legislatore non ha elaborato alcuna disciplina specifica, lasciando così all’interprete l’onere di addivenire attraverso il solo strumento della esegesi alla individuazione dei margini entro i quali ritenere applicabili in via analogica e/o estensiva normative ed elaborazioni della giurisprudenza e della prassi amministrativa già dettate con riferimento ai coniugi e alle unioni coniugali.
Si riporta di seguito uno stralcio del commento dal titolo Unioni civili e convivenze: impatto con imposte indirette e relativi regimi fiscali, anche agevolativi tratto da Immobili & Proprietà, fascicolo n. 7/2016, a cura di Adriano Pischetola – Notaio in Perugia.
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Il regime fiscale dei ”contratti di convivenza”
La prima problematica che suscita la legge Cirinnà circa i ‘contratti di convivenza’ con cui – secondo il comma 50 della legge – i conviventi possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune[1], è quello dell’applicabilità o meno del regime di esenzione fiscale in materia di scioglimento del vincolo coniugale o separazione e previsto dall’art. 19 della L. n. 74/1987 in materia di separazione e divorzio[2].
Al riguardo va rilevato in questa sede che, come affermato dalla medesima Corte Costituzionale[3] il regime di esenzione disposto dall’art. 19 risponde all’esigenza “… di agevolare l’accesso alla tutela giurisdizionale che motiva e giustifica il beneficio fiscale con riguardo agli atti del giudizio divorzile …” e “… di separazione, anche in considerazione dell’esigenza di agevolare e promuovere, nel più breve tempo, una soluzione idonea a garantire l’adempimento delle obbligazioni che gravano, ad esempio sul coniuge non affidatario della prole”.
Di fatto, a parere della Corte, con la richiamata disposizione, il legislatore ha inteso escludere da imposizione gli atti del giudizio divorzile (o di separazione), al fine di favorire una rapida definizione dei rapporti patrimoniali tra le parti.
Orbene, il punto per noi qui essenziale è verificare se le stesse esigenze sottese alla norma agevolativa del ricordato art. 19 della L. n. 74/1987 possano ritenersi sussistenti anche in relazione ai contratti di convivenza.
Ora, non v’è chi non veda che in detti contratti non si pone alcuna esigenza di agevolare o favorire l’accesso alla tutela giurisdizionale in quanto di regola essi non s’inseriscono in alcuna vicenda processuale già in atto, ma al contrario sono o possono essere finalizzati proprio ad evitare l’instaurarsi di una vicenda siffatta.
Anche se da un’altra prospettiva, e soprattutto in riferimento a quelle ipotesi di riconoscimento della rilevanza del rapporto di convivenza more uxorio spesso operato dalla Giurisprudenza, anche con riguardo a questo rapporto si potrebbe porre la necessità di una tutela giurisdizionale più agile e snella delle situazioni giuridiche soggettive ad esso connesse e riconosciute come giuridicamente rilevanti.
Per convincersene si potrebbe pensare a come talora la Giurisprudenza anche della Suprema Corte[4] abbia concepito, ad esempio, l’esistenza di una sorta di presunzione di gratuità nel lavoro, non solo domestico e casalingo, prestato dal convivente[5], per arrivare consequenzialmente ad escludere un rapporto di lavoro subordinato con l’altro convivente, titolare di impresa, qualora beninteso sia dimostrata non solo una comunanza affettiva spirituale, ma anche «una partecipazione effettiva ed equa di ciascun convivente alla risorse economiche del nucleo stesso» (indirettamente pervenendo comunque ad una qualificazione in termini concreti della convivenza giuridicamente rilevante); né va ignorato quello che, in materia di contratti di convivenza costituisce il leading case di cui alla sentenza Cass. 8 giugno 1993, n. 6381, ove convintamente i supremi giudici dichiaravano la piena validità di un’attribuzione patrimoniale da un convivente all’altro e ne escludevano l’illiceità sotto ogni profilo.
Nella recente legge Cirinnà poi emergono altre situazioni giuridiche rilevanti riguardo alle quali si potrebbe porre la necessità di una rapida ed efficace tutela su di un piano giurisdizionale, così in materia di obbligo per gli alimenti se il rapporto finisce (calcolati in base alla durata del rapporto) qualora uno dei conviventi versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, in materia di risarcimento del danno in caso di morte del partner per illecito di un terzo (con gli stessi criteri stabiliti per i coniugi), in materia di impresa familiare e in materia di diritto all’assistenza in caso di malattia e di ricovero. Inoltre, la legge interviene sulla casa comune prevedendo che, se muore il partner proprietario, l’altro convivente può continuare a viverci per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni, ma mai per più di cinque; oppure si pensi alla esecuzione di eventuali obblighi al cui adempimento siano tenuti l’uno o entrambi i partner, anche con riferimento all’eventuale prole, di cui, secondo il nuovo dettato dell’art. 316 c.c., essi abbiano la ‘responsabilità genitoriale’ essendo ormai andato in soffitta il concetto di ‘potestà’.
Ciò che di certo accomuna le ipotesi espressamente agevolate sul piano normativo (afferenti al procedimento divorzile e di separazione personale dei coniugi) a quelle non normate e qui oggetto di riflessione (afferenti ai contratti di convivenza) è l’esigenza di addivenire ad una sistemazione coordinata e condivisa dei rapporti patrimoniali tra i soggetti astretti da un legame affettivo (coniugi o già coniugi da un lato, conviventi dall’altro), sistemazione che in quest’ultima ipotesi addirittura potrebbe essere idonea ad evitare il ricorso alla stessa tutela giurisdizionale.
Se, infatti il vincolo coniugale, oggetto di scioglimento (in caso di divorzio), o in parte incrinato dalle vicende della separazione personale, è ciò che costituisce il presupposto della tutela e della protezione apprestata dall’ordinamento e quindi del medesimo regime fiscale agevolato qui in discussione, si potrebbe ritenere che anche il legame nascente da un rapporto di mera convivenza, laddove ritenuto meritevole di tutela in quanto costitutivo della formazione sociale ove si svolge la personalità dei conviventi ex art. 2 Cost., possa costituire il presupposto logico e giuridico che ottenga ai detti contratti estensivamente un trattamento fiscale agevolato.
Ma trattasi, è bene qui ribadirlo, in ogni caso di mera ricostruzione ipotetica, non suffragata allo stato da alcun referente né normativo né giurisprudenziale.
La imposizione indiretta dei contratti di convivenza portanti convenzioni (e clausole) senza efficacia traslativa
Fatte le debite premesse di cui innanzi, e nel presupposto che non si ritenga plausibile, allo stato attuale della legislazione e della evoluzione giurisprudenziale, l’applicabilità dello speciale regime agevolativo di cui alla L. n. 74/1987, converrà operativamente distinguere – ai fini che qui interessano – tra contratti di convivenza recanti convenzioni (e clausole) senza e con efficacia traslativa.
Quanto alle prime (convenzioni e clausole senza efficacia traslativa) è evidente che risulterà necessario operare un ulteriore distinguo tra quelle non aventi ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale e quelle aventi ad oggetto siffatte prestazioni.
Per le convenzioni e le clausole non aventi ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale, risulterà applicabile (ed una sola volta, quante convenzioni e clausole siano riportate nell’unico documento sotto posto alla registrazione secondo quanto affermato dall’A.F. con circolare n. 44/E del 7 ottobre 2011) l’imposta di registro in misura fissa; ciò con tutta probabilità anche per l’atto di designazione di cui al comma 40 della nuova L. n. 76/2016, ove è previsto appunto che ciascun convivente di fatto può designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati:
a) in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute;
b) in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie.
Nella legge non c’è alcuna disposizione agevolativa né sono stabilite forme semplificate per perfezionare tale atto di designazione, per cui dovrebbero valere i principi generali del nostro ordinamento anche tributario.
Tra le convenzioni e le clausole non aventi ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale, in particolare rientrano senz’altro quelle con cui i contraenti/conviventi fanno riferimento ad un inventario dei beni e stabiliscono una presunzione di titolarità, precisano il significato da attribuire alle attribuzioni patrimoniali, concordano l’instaurazione di un regime di comunione o di separazione o ancora siglano un accordo preventivo sulla cessazione della convivenza o si accordano per la regolamentazione dei rapporti parentali di un figlio minorenne di un ex-convivente more uxorio riconosciuto o dettano norme ‘programmatiche’ circa le modalità di assistenza in caso di malattia o circa la durata del contratto di convivenza.
Esempi tipici di siffatte clausole potrebbero essere quello in cui i conviventi Tizio e Caia, in riguardo e a causa del rapporto di convivenza tra i medesimi intercorrente, convengano di provvedere ai bisogni del loro rapporto, e quindi alle spese comuni, in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale [o casalingo]
oppure
di provvedere ai bisogni del loro rapporto, e quindi alle spese comuni, in percentuali uguali o diversificate in considerazione anche dell’apporto di tipo morale e affettivo di ciascuno
oppure
di provvedere ai bisogni del loro rapporto, e quindi alle spese comuni, in una misura fissa o in misura percentuale magari diversificandone l’entità tra i conviventi in considerazione anche dell’apporto di tipo morale e affettivo di entrambi o di qualcuno di essi in particolare.
Per le convenzioni (e le clausole) invece aventi ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale (diverse da quelle con efficacia attributiva di cui si dirà nel prosieguo), l’interprete – al fine di individuare il corretto trattamento fiscale – dovrà di volta in volta verificare ‘quale’ prestazione a contenuto patrimoniale la convenzione (o la clausola) pattuita comporta e quale ne sia il ‘titolo’ (se oneroso o gratuito), in modo da stabilire in via preliminare e pregiudiziale in quale ambito la statuizione o pattuizione negoziale si colloca, se in quello inciso con imposta di registro o di donazione.
Così, ed a scopo solo esemplificativo, in tutti i casi in cui uno o entrambi i conviventi s’impegnino ad una contribuzione in danaro o in natura per sopperire alle necessità del menage, sarà giocoforza discriminare le ipotesi in cui tali impegni siano unilaterali da quelle in cui essi si pongano su di un piano di corrispettività e di sostanziale parità economico-finanziaria, in quanto nelle prime (se assimilabili in un certo qual modo ad una sorta di ‘rendita’ o di ‘pensione’) potrebbe trovare applicazione il sistema impositivo previsto dalla normativa fiscale vigente (ex art. 2 commi 47 ss. del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262 convertito in L. 24 novembre 2006, n. 286 ed ex TU n. 346/1990) per gli atti a titolo ‘gratuito’ (e quindi non necessariamente donativi o liberali) e nelle altre ipotesi invece potrebbe trovare applicazione il sistema impositivo previsto dalla normativa fiscale vigente per gli atti a titolo oneroso (e quindi applicando un’imposta di registro ad una base imponibile commisurata al valore della ‘prestazione che dà luogo all’applicazione della maggiore imposta’ ex lett. c) art. 43 del TUR).
Se infatti in questi tipi di contratti si ritiene di regola assente l’intento donativo, ciò non vuol dire che non possa trovare ingresso anche la normativa fiscale di cui al TU n. 346/1990 (in assenza di ogni corrispettività tra le prestazioni cui s’impegnano i contraenti) applicabile (per effetto delle disposizioni contenute nel richiamato d.l. n. 262/2006) anche agli atti a titolo gratuito non donativi. D’altra parte la detta ultima normativa fiscale dovrebbe trovare ingresso anche a fronte di prestazioni poste dai contraenti su di un piano di (apparente) corrispettività, ma del tutto ‘squilibrate’ e sproporzionate tra di esse.
C’è solo da chiarire che l’imposta di donazione (applicata anche come detto anche ad atti gratuiti non donativi) presuppone che via sia un trasferimento di beni o diritti o che si ponga in essere la costituzione di una vera e propria rendita (consistente nella dazione di una somma di danaro o di una certa quantità di altre cose fungibili) o la costituzione di una pensione (ex art. 1 del TU n. 346/1990).
Ma può anche verificarsi invece che uno dei conviventi, in riguardo e a causa del rapporto di convivenza intercorrente con l’altro, si obblighi nei suoi confronti a provvedere al suo mantenimento e a prestare qualunque tipo di assistenza morale e materiale qualora, per avventura, questi fosse in stato di bisogno e non fosse in grado di provvedervi con proprie disponibilità finanziarie o si trovasse comunque in condizioni soggettive e/o oggettive tali da non potervi provvedere. In effetti in tal caso non si trasferisce alcun bene o diritto, né si costituisce una rendita o una pensione, ma si assume solo l’obbligo della prestazione di un ‘facere’ che può avere ampio e diversificato contenuto. È evidente che una convenzione siffatta potrebbe in linea teorica essere assoggettata dal Fisco all’imposta di registro con l’aliquota del 3% (ai sensi dell’art. 9 della tariffa parte prima del TUR) e il problema sarebbe quello di individuare un ‘valore’ quale base imponibile di ardua individuazione al momento della stipula dell’atto. Forse potrebbe soccorrere in tal caso la tecnica della tassazione con i criteri dell’art. 35 del TUR, ossia applicare l’imposta su di un valore solo provvisoriamente determinato, salvo successiva più esatta quantificazione quando si saranno verificati altri fatti o circostanze specificative di quel valore, grazie ad una successiva denuncia effettuata dal contribuente all’Ufficio ai sensi dell’art. 19 del TUR. D’altra parte l’esistenza di una circostanza condizionante (e cioè lo ‘stato di bisogno’ del convivente beneficiario) potrebbe giustificare l’applicazione per intanto della imposta di registro nella sola misura fissa, salvo anche stavolta l’obbligo della denuncia successiva ex art. 19 al verificarsi della condizione stessa.
Così, analogamente, se tra le prestazioni dedotte nel contratto di convivenza si profila una sostanziale parità o corrispondenza sinallagmatica sotto il profilo economico, si dovrebbe coerentemente uscire fuori dall’alveo del sistema impositivo segnato dal TU n. 346/1990 per rientrare in quello del TUR (d.P.R. n. 131/1986).
Va peraltro precisato che, seppure venga convenuto che certe spese debbano essere sostenute in misura paritaria (od anche non paritaria), ciò non fa nascere subito un’attribuzione imponibile, essendo questa legata all’effettivo verificarsi dell’evento; con il che non pare potersi andare oltre la debenza dell’imposta fissa che è dovuta per tutti gli atti assimilabili a quelli sottoposti a condizione sospensiva.
Da altro punto di vista, non si può escludere, peraltro, a proposito delle clausole riguardanti la suddivisione delle spese della convivenza (con assunzione reciproca di obblighi di sostenere le spese stesse), che una loro natura di mandato, con o senza rappresentanza, rispetto al quale o l’imputazione diretta degli effetti giuridici con il congegno della rappresentanza o l’imputazione di quelli economici con quello dell’ agire per conto altrui (ma non in nome altrui), porti ad una rendicontazione tra le Parti che nulla abbia a che vedere con uno “scambio” cui far risalire la natura onerosa.
Inoltre per determinate clausole (come quella ‘penale’ e per eventuali dichiarazioni di ‘debito’) bisognerà valutarne l’incidenza fiscale specifica, soprattutto se la loro imposizione non possa essere considerata ricompresa in quella della convenzione ‘principale’ cui accedano.
Esempio della prima potrebbe essere quella in cui un convivente, inadempiente agli obblighi derivanti da una determinata clausola del contratto di convivenza, dovesse corrispondere all’altro, a titolo di penale, una determinata somma salvo l’eventuale maggior danno, che il convivente non inadempiente fosse comunque ammesso a provare.
Anche qui, peraltro, dal momento che la penale raggiunge l’effettività con l’inadempimento e solo a partire da questo assume rilevanza fiscale, analogamente all’atto sottoposto a condizione sospensiva, esso farà scattare l’obbligo di denuncia ex art. 19 TUR.
Esempio della seconda clausola (della dichiarazione di debito), utilizzata nella prassi d’Oltralpe, potrebbe essere quella per cui si stabilisca che al momento dell’apertura della successione di uno dei conviventi, l’altro possa assumere la posizione di creditore per un determinato ammontare o per una certa prestazione nei confronti del compendio ereditario dal quale risulti per ipotesi escluso come erede.
Qui ci troveremmo di fronte ad un riconoscimento di debito di regola tassato con l’aliquota dell’1% previsto per gli atti di natura dichiarativa quale negozio di accertamento, anch’esso peraltro sottoposto alla condizione sospensiva della premorienza del convivente in relazione alla cui futura eredità l’altro convivente potrebbe vantare la veste di creditore nei confronti dell’asse ereditario. Peraltro è discutibile la validità di una siffatta clausola che è destinata di fatto a costituire una situazione giuridica di vantaggio economico (una sorta di ‘legato di credito’) a favore del convivente sopravvissuto, al di fuori e con forme diverse dal testamento.
Infine, quanto alle convenzioni in cui uno dei conviventi si obbliga a far sì e/o consente che l’altro convivente disponga di un diritto di abitazione (personale o reale) sulla casa di proprietà del primo o magari condotta solo a titolo locativo, è bene rilevare che potrà trovare applicazione l’imposta di donazione (TU n. 346/1990) solo a fronte della costituzione di un vero e proprio diritto reale di godimento, non prevedendo il TU n. 346/1990 l’imposizione di atti di concessione del diritto ‘personale’ di godimento di un immobile; di guisa che ogni altra convenzione di effetto e contenuto diversi, perfezionato grazie all’intervento notarile, sarà attratta in via residuale nell’alveo dell’imposta di registro dovuta nella sola misura fissa (laddove non abbia ad oggetto prestazioni da considerarsi a contenuto patrimoniale) o in misura proporzionale, con aliquota del 3% ex art. 9 della tariffa allegata al TUR, laddove la ‘concessione’ possa essere assimilata ad una prestazione a contenuto patrimoniale.
La imposizione indiretta di convenzioni (e clausole) con efficacia traslativa
Quanto ai criteri d’imposizione delle convenzioni (e clausole) con efficacia traslativa, bisognerà innanzitutto verificare se il trasferimento (segnatamente immobiliare):
1) non sia altro che l’effetto di un contratto ‘tipico’ di donazione o vendita, nel qual caso non si profilerà criticità alcuna applicandosi i principi generali in materia fiscale;
2) o avvenga nell’ambito di un contratto traslativo posto in essere nell’adempimento di una pregressa obbligazione contrattuale assunta dal disponente o di un’obbligazione ‘naturale’ (connessa come tale al legame di convivenza in sé);
3) o si articoli come ‘corrispettivo’ di una prestazione assistenziale, magari vitalizia, cui si obblighino terzi ‘vitalizianti’;
4) o derivi dalla costituzione di un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c.;
5) o infine – sempre in alternativa alle ipotesi sopra dette – sia connesso con la stipula di un trust.
Quanto alla ipotesi sub 2), esclusa, di regola, la causa donativa o liberale, il trasferimento (o comunque l’attribuzione immobiliare) può non essere considerato semplicisticamente ‘a titolo gratuito’ (circostanza che ovviamente renderebbe operativa l’applicabilità delle disposizioni di cui al TU n. 346/1990) qualora si ritenga che l’atto traslativo o attributivo (anche per ipotesi divisorio, allorché si tratti di uno di quegli atti che hanno per effetto lo scioglimento della comunione) possa essere qualificato al contrario come ‘oneroso’, in quanto perfezionato in esecuzione di un obbligo (atto quindi ‘dovuto’) già assunto tra i conviventi in tempi antecedenti al trasferimento stesso o da ritenersi connesso con il tipo di particolare legame di convivenza. Neanche rileverebbe sotto questo profilo, per ascrivere le fattispecie in esame all’area della onerosità, la circostanza che non vi sia il pagamento di un corrispettivo in senso tecnico.
Al riguardo si ricorda come attenta dottrina[6] abbia rilevato come “nel caso dell’obbligazione di dare e del pagamento traslativo, il corrispettivo – quale ordinaria giustificazione del trasferimento – è sostituito dalla presenza di un’obbligazione specifica, di fonte legale o convenzionale, di cui il negozio dispositivo è attuazione. Sicché può senz’altro dirsi che la gratuità del trasferimento è meramente apparente, nel senso che è soltanto una caratteristica strutturale e non funzionale del negozio, con il quale il debitore adempie la propria obbligazione. In tal senso può ancora dirsi che la costruzione negoziale di obbligazioni di dare seguite da un pagamento traslativo tende a collocarsi nell’alveo delle operazioni contrattuali a titolo oneroso, ancorché l’onerosità non appaia dalla struttura negoziale specifica come corrispettività/reciprocità delle prestazioni, ma possa tuttavia ricostruirsi dalla lettura complessiva di tutti gli atti, fatti e rapporti giuridici di cui l’operazione economica si compone”.
Il concetto ora esposto appare rimarcato anche in un arresto della Giurisprudenza di legittimità a sezioni unite[7] in ordine alla gratuità od onerosità di un atto solutorio di adempimento di un’obbligazione, e secondo il quale “… la valutazione di gratuità od onerosità di un negozio va compiuta con esclusivo riguardo alla causa concreta, costituita dalla sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare, al di là del modello astratto utilizzato, e non può quindi fondarsi sull’esistenza, o meno, di un rapporto sinallagmatico e corrispettivo tra le prestazioni sul piano tipico ed astratto, ma dipende necessariamente dall’apprezzamento dell’interesse sotteso all’intera operazione da parte del “solvens”, quale emerge dall’entità dell’attribuzione, dalla durata del rapporto, dalla qualità dei soggetti e soprattutto dalla prospettiva di subire un depauperamento, collegato o meno ad un sia pur indiretto guadagno …”.
A fortiori – e stavolta anche in sintonia con la definizione strutturale della fattispecie – si deve ritenere che l’opzione negoziale di cui supra sub 3) comporti assoggettamento ai criteri impositivi di cui al TUR n. 131/1986, e segnatamente alla individuazione di una base imponibile ragguagliata – ai sensi dell’art. 43 lett. c) – al valore del bene ceduto o al valore della prestazione che dà luogo all’applicazione della maggiore imposta, con avvertenza che in ipotesi di ulteriore prestazione assistenziale (oltre che a favore del o dei disponenti dell’immobile) anche a favore di terzi, dovrà essere valutata – a fini impositivi e stavolta con riferimento alle disposizioni del TU n. 346/1990 – il trasferimento di ricchezza che da essa derivi a loro favore a titolo gratuito.
Infine quanto all’imposizione delle fattispecie sopra classificate sub 4) e sub 5), troveranno applicazione i criteri già esposti dalla stessa A.F. nella circolare n. 3/E del 2008[8].
In estrema sintesi si può dire che:
se il trasferimento scaturisce da un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. va tenuta in debita considerazione la posizione dell’A.F. espressa nella menzionata ultima circolare che discrimina tra vincoli senza o con effetti traslativi, riservando solo ai primi le imposte (registro e ipotecaria) in misura fissa e ai secondi le imposte (di successione, ipotecaria e catastale in misura proporzionale);
se il trasferimento scaturisce da un trust, sempre in base a quanto ritenuto dall’A.F. nella ricordata circolare, rileva un’ “unica causa fiduciaria” e ciò giustificherebbe l’applicazione dell’imposta sulle donazioni anche qualora l’atto istitutivo non comporti trasferimento di alcun bene o diritto, come ad es. nel cd. trust ‘autodichiarato’, e prendendo a riferimento l’eventuale rapporto di parentela tra settlor e ‘beneficiari’ finali’;
in relazione invece alle imposte ipotecaria e catastale, anche in caso di trust, secondo l’A.F. esse sarebbero dovute in misura proporzionale con esclusivo riferimento agli atti con efficacia traslativa.
Qui va solo ricordato per completezza – per quanto attiene alla tassazione dei vincoli di destinazione – che di recente la Suprema Corte in alcuni arresti giurisprudenziali (sentenze n. 3735 e n. 3737, del 24 febbraio 2015 e altra sentenza n. 3886 del 25 febbraio 2015), formulate dal medesimo collegio giudicante (presieduto dal Dott. Mario Cicala), ha affermato la diretta imponibilità degli atti portanti costituzione di vincoli di destinazione e della loro attrazione nell’ambito dell’imposta di successione e donazione, pur in assenza di trasferimenti di beni e diritti (e cioè di quella circostanza che a buon diritto, come innanzi si notava, è ritenuta elemento determinante e qualificante dell’imposta disciplinata dal T.U. 31 ottobre 1990, n. 346). Ciò significherebbe che anche un vincolo di destinazione ‘autodichiarato’ dovrebbe scontare l’imposta di donazione per di più con l’aliquota massima dell’8%; e lo stesso trattamento fiscale si potrebbe applicare, in questo ordine di idee portato alle estreme conseguenze, ai patrimoni destinati ad uno specifico affare ex art. 2447-bis c.c., ad ogni tipologia di fondo patrimoniale ex art. 167 c.c., al fondo comune della rete-contratto.
L’imposta re-introdotta dall’art. 2 commi 47 ss. del d.l. 3 ottobre 2006, n. 262 convertito in L. 24 novembre 2006, n. 286, secondo i giudici, sarebbe un’imposta “nuova, accomunata solo per assonanza alla gratuità delle attribuzioni liberali, altrimenti gratuite e successorie” e riceverebbe disciplina mediante un rinvio, di natura recettizio-materiale, alle disposizioni del T.U. n. 346, ma conserverebbe “connotati peculiari e disomogenei rispetto a quelli dell’imposta classica sulle successioni e sulle donazioni” … Presupposto di detta ‘nuova’ imposta sarebbe non già un ‘trasferimento’, bensì ‘la predisposizione del programma di funzionalizzazione del diritto al perseguimento degli obiettivi voluti’ e quindi la ‘utilità’ che da siffatto programma ne derivi al beneficiario (si ripete, pur non risultando destinatario di alcun effetto traslativo).
Ma è stato bene rilevato dai primi commentatori di queste sentenze[9] che esso sono in totale controtendenza rispetto ai prevalenti orientamenti interpretativi, elaborati da dottrina, giurisprudenza e prassi amministrativa; e che soprattutto i principi ivi espressi sono inaccettabili in quanto:
1) in primo luogo ignorano che tutta l’impalcatura dell’imposta di cui al TU n. 346/1990 (cui pure si richiama l’art. 2 del d.l. n. 262/2006) è fondata sulla necessità di un trasferimento di beni e diritti da un soggetto a ad altra soggetto distinto e separato rispetto al disponente che è il ‘beneficiario’; e che ai fini dell’applicazione dell’imposta ciò che conta è la gradualità dell’eventuale rapporto di coniugio, di parentela o di affinità che esiste tra disponente e beneficiario; di guisa che se non c’è distinzione tra disponente e beneficiario perché non c’è appunto alterità (come nel vincolo autodichiarato), l’imposta di cui si discute non può trovare ingresso, dovendo optarsi per l’applicazione della sola imposta di registro in misura fissa;
2) in secondo luogo ipotizzano l’applicazione dell’imposta ‘de qua’ pur in assenza di qualsiasi capacità contributiva fiscalmente rilevante ai sensi dell’art. 53 Cost.; pertanto una interpretazione costituzionalmente orientata della norma impositiva dei vincoli di destinazione non può fondarsi sui convincimenti espressi dalla Suprema Corte nelle ricordate sentenze, pena appunto la sua contrarietà a principi costituzionali fondanti del nostro ordinamento giuridico e quindi anche tributario.
(Altalex, 26 maggio 2016. Articolo di Adriano Pischetola tratto dalla rivista Immobili & Proprietà, Ipsoa)
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[1] Contratti consacrati come validi e legittimi proprio dalla legge Cirinnà forse sulla scia di una datata Raccomandazione del Consiglio d’Europa già del 1988 diretta a impedire che i contratti di convivenza vengano considerati nulli dalle relative disposizioni nazionali per il solo fatto di essere stati stipulati tra persone “living together as an unmarried couple”. Sia consentito con riferimento alla problematica al vaglio il richiamo a Muritano-Pischetola, Accordi patrimoniali tra conviventi ed attività notarile, Milano, 2009.
[2] In generale in dottrina in ordine alla materia dei contratti di convivenza Roppo, Convivenza more uxorio e autonomia privata (ancora sui presupposti e modalità di rilevanza della famiglia senza matrimonio), in Giur. it., 1980, I, 543; Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, 143 ss.; Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, 151 ss.; Franzoni, I contratti tra conviventi «more uxorio», in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1994, 737 ss.; Doria, Autonomia privata e causa familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano, 1996; Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997, 495; Zoppini, Tentativo d’inventario per il «nuovo» diritto di famiglia: il contratto di convivenza, in Riv. crit. dir. priv., 2001, 335 ss.; Palmeri, Il contenuto atipico dei negozi familiari, Milano, 2001, 66 ss.; Spadafora, Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, Milano, 2001, 163 ss.; Bernardini De Pace, Convivenza e famiglia di fatto. Ricognizione del tema nella dottrina e nella giurisprudenza, in I contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini, Torino, 2002, 303 s.; Franceschelli, voce «Famiglia di fatto», in Enc. del dir., Agg., VI, Milano, 2002, 370 s.; Ferrando, Le contribuzioni tra i conviventi fra obbligazioni naturali e contratto, in Fam. e dir., 2003, 601; Balestra, I contratti di convivenza, in Fam., pers. e succ., 2006, 43 ss.; Ferrando, Contratto di convivenza, contribuzione e mantenimento, in Contratti, 2015, 722 ss.; Senigallia, Convivenza more uxorio e contratto, in Nuova Giur. civ., 2015, 11, 20671.
[3] Sentenza n. 202 dell’11 giugno 2003.
[4] Cass. 17 febbraio 1988, n. 1701, in Foro it., 1988, 2306 ss., con nota di Calò.
[5] Cfr. anche Cass. civ., Sez. lav., 29 settembre 2015, n. 19304, con nota di commento di Oberto, Ancora sulla pretesa gratuità delle prestazioni lavorative subordinate rese dal convivente more uxorio, in Fam. e dir., 2016, 2, 129.
[6] Camardi (a cura di), Vendita e contratti traslativi, Milano, 1999, 133.
[7] Cass., Sez. Un., 18 marzo 2010, n. 6538.
[8] Sia pure con i correttivi segnalati dalla Commissione studi tributari del CNN nello studio n. 58/2010-T approvato il 21 gennaio 2011 La tassazione degli atti di destinazione e dei trust nelle imposte indirette, in Studi e Materiali, 2011, n. 2, 541 ss., cui qui si rimanda per ogni eventuale ulteriore approfondimento. Sia consentito anche il richiamo a Muritano-Pischetola, Considerazioni su trust e imposte indirette, in Notariato, 2008, n. 3, 320 ss.
[9] Stevanato, La “nuova” imposta su trust e vincoli di destinazione nell’interpretazione creativa della Cassazione, in Giur. trib., 2015, 397 ss.; Tassani, Sono sempre applicabili le imposte di successione e donazione sui vincoli di destinazione?, in Il Fisco, 2015, 1957 ss.; cfr. anche Studio CNN Studio n. 132-2015/T, L’imposizione indiretta sui vincoli di destinazione: nuovi orientamenti e prospettive interpretative; approvato dall’Area Scientifica – Studi Tributari il 1° luglio 2015 e dal CNN nella seduta dell’1 e 2 ottobre 2015.