Sono sempre più numerose le sentenze che decidono controversie insorte tra il danneggiato da un illecito endofamiliare e gli eredi del responsabile, nel frattempo deceduto.
Non di rado esse pongono rilevanti questioni in tema di prescrizione.
Di un caso del genere si è occupato il Tribunale di Cagliari, con la sentenza del 25 gennaio 2017, n. 259, che ha deciso la causa promossa dal figlio contro il padre naturale, e poi degli eredi di questi, per ottenere la declaratoria giudiziale della paternità di quest’ultimo (art. 269 c.c.) e, nel contempo, la sua condanna al risarcimento del danno non patrimoniale per le sofferenze patite a causa del suo mancato “apporto di natura economica ed educativa” alla propria vita.
Accertata e dichiarata la paternità di F.N., sulla base della prova testimoniale e della consulenza tecnica esperite, il Tribunale ha altresì condannato i suoi eredi al risarcimento richiesto, equitativamente liquidato in una somma pari ad 1/3 del valore minimo previsto “dalle tabelle di Milano per il decesso di un genitore”.
Dall’istruttoria era emerso che, dopo la nascita del figlio, F.N. lo aveva frequentato “per circa un anno per poi disinteressarsene completamente” ed aveva rifiutato ogni rapporto con lui anche quando questi, “appresa l’identità del padre naturale durante l’adolescenza”, aveva cercato di contattarlo.
Il Tribunale, a questo proposito, ha richiamato la giurisprudenza della Suprema Corte secondo la quale
“l’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli (art. 147 e 148 c.c.) è eziologicamente connesso esclusivamente alla procreazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così determinandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore”
(Cass. civ. n. 26205/2013, ma nello stesso senso si vedano pure: 5652/2012, 3079/2015).
Si noti che l’illecito, cui è stato commisurato il risarcimento anzidetto, si era protratto “per l’arco temporale che va dalla nascita (12.11.1959) fino al decesso del genitore (12.1.2003)”, e cioè per oltre un quarantennio.
Si trattava, quindi, di un illecito assai risalente, come avviene quasi di regola in questi casi.
Dal testo della sentenza non risulta che l’autore dell’illecito avesse opposto al figlio la prescrizione del diritto al risarcimento del danno azionato nei suoi riguardi.
Tale eccezione era stata invece sollevata nella causa decisa dalla sentenza n. 6833/2016 della Corte di cassazione, nella quale il Tribunale di Venezia aveva respinto, proprio in ragione dell’eccepita prescrizione, la domanda di risarcimento coltivata nei confronti degli eredi del padre da un figlio che lamentava d’aver subito, nel 1974 e nel 1980, due “ricoveri presso i servizi psichiatrici dell’Ospedale di Venezia… dovuti ad ingiustificate e pressanti richieste da parte del padre (deceduto nelle more del giudizio)”.
Confermata la decisione dalla Corte territoriale, che aveva respinto l’appello del figlio, pure il ricorso per cassazione di costui è stato rigettato, sul presupposto per cui “la violazione di un diritto assoluto… che costituisca la causa petendi di un’azione risarcitoria, non trasforma… il conseguente diritto al risarcimento del danno in un diritto imprescrittibile, restando quest’ultimo collocato tout court nell’area dell’illecito aquiliano, disciplinato in via generale dalla regola prescrizionale di cui all’art. 2947 c.c.” con la previsione di un termine quinquennale (salvo il caso previsto dal terzo comma), come ha evidenziato la Cassazione.
A questo fine, inoltre, la Suprema Corte ammonisce a non confondere “il momento della consumazione dell’illecito (di carattere evidentemente istantaneo, e già di per sé produttivo di effetti ipoteticamente dannosi) con quello della permanenza dei suoi effetti (e delle conseguenze dannose risarcibili)”.
In proposito
va, quindi, rammentata la distinzione accolta dalla consolidata giurisprudenza di legittimità fra “illecito permanente” ed “ illecito istantaneo con effetti permanenti”.
Le Sezioni Unite hanno così definito le conseguenze pratiche di tale distinzione concettuale: “nel caso di illecito istantaneo, caratterizzato da un’azione che si esaurisce in un lasso di tempo definito, lasciando permanere i suoi effetti, la prescrizione incomincia a decorrere con la prima manifestazione del danno, mentre, nel caso di illecito permanente, protraendosi la verificazione dell’evento in ogni momento della durata del danno e della condotta che lo produce, la prescrizione ricomincia a decorrere ogni giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta, fino alla cessazione della predetta condotta dannosa, sicché il diritto al risarcimento sorge in modo continuo via via che il danno si produce, ed in modo continuo si prescrive se non esercitato entro cinque anni dal momento in cui si verifica” (SS.UU. n. 23763/2011).
La S.C. ha ritenuto le condotte verificatesi nel caso deciso (pressioni del padre per ottenere il ricovero del figlio) costituissero un illecito di questo secondo genere, ma nella diversa ipotesi del genitore che non assolva i propri obblighi educativi e di mantenimento nei confronti del figlio è piuttosto da pensare che si tratti di un “illecito permanente”.
A tanto va soggiunto che, in considerazione delle relazioni di parentela che sovente ricorrono tra le parti in causa in controversie di questo genere, dovrà tenersi presente la possibile ricorrenza di cause di sospensione della prescrizione ex artt. 2941 e 2942 c.c..
La sospensione della prescrizione, non essendo oggetto di un’eccezione in senso stretto, è rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità “purché le relative circostanze siano risultanti dagli atti già ritualmente acquisiti nel precedente corso del processo” (Cass. civ. nn. 4548/2014, 21929/2009…).