Cassazione Civile, sez. III, sentenza 30/09/2016 n° 19416
La vicenda oggetto di scrutinio trae il fomite dal mancato pagamento della parcella di un avvocato da parte di un suo collega. Il professionista convenuto negava di dover corrispondere le competenze professionali all’altro legale deducendo che l’incarico allo stesso fosse stato conferito dalla società terza chiamata. In primo ed in secondo grado, la domanda attorea, volta al pagamento del corrispettivo da parte del collega, veniva accolta. Si giungeva in Cassazione.
Il ricorrente, nelle sue difese, sostiene che non sia stato provato dal professionista il conferimento, da parte sua, dell’incarico; in difetto di tale prova, dunque, esso deve intendersi rilasciato dal firmatario della procura alle liti.
La Suprema Corte rigetta tale ricostruzione e sottolinea che «obbligato a corrispondere il compenso professionale al difensore per l’opera professionale richiesta non è necessariamente colui che ha rilasciato la procura alla lite, potendo anche essere colui che abbia affidato al legale il mandato di patrocinio, anche se questo sia stato richiesto e si sia svolto nell’interesse di un terzo».
In altre parole, tra i due legali è venuto a crearsi un ordinario rapporto di mandato in cui la posizione del “cliente” non è in capo al soggetto che ha rilasciato la procura, ma spetta a chi ne ha domandato la prestazione.
In buona sostanza, il primo avvocato assumerebbe la veste di mandante, mentre il secondo quella di mandatario.
Si tratterebbe di un mandato a favore di terzo, in base al quale il terzo (nel nostro caso il cliente) diventa titolare del diritto all’adempimento dell’obbligo oggetto del mandato[1].
Esso si distingue dal mandato nell’interesse di terzo, in cui il terzo rimane estraneo al contratto e non ha azione diretta contro il mandante o il mandatario per la mancata realizzazione del proprio interesse. Tale mandato produce effetti unicamente nella sfera del mandante[2].
Nella fattispecie in esame, si fa riferimento ad un particolare tipo di mandato detto di patrocinio.
Esso va tenuto distinto dal conferimento della procura; quest’ultima, infatti, costituisce un negozio unilaterale con il quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio; il mandato sostanziale, invece, «[…]costituisce un negozio bilaterale (cosiddetto contratto di patrocinio) con il quale il professionista viene incaricato, secondo lo schema negoziale che è proprio del mandato, di svolgere la sua opera professionale in favore della parte. Ne consegue che, ai fini della conclusione del contratto di patrocinio, non è indispensabile il rilascio di una procura ad litem, essendo questa necessaria solo per lo svolgimento dell’attività processuale[…] ».[3]
La valutazione in merito a chi abbia conferito il suddetto mandato va effettuata in concreto.
Nel caso di specie, il cliente lo aveva affidato ad un legale di sua fiducia ma, dovendosi esperire l’azione in un’altra città, quest’ultimo si era avvalso dell’ausilio di un collega appartenente al foro competente per la causa. È un tipico esempio di domiciliazione.
Essa si concretizza allorché un avvocato eserciti la propria attività professionale al di fuori della circoscrizione del tribunale ove si svolge il processo; in siffatta ipotesi, egli deve eleggere domicilio presso il luogo in cui ha sede l’ufficio giudiziario in cui è radicata la causa[4].
Ad avviso dei supremi giudici, la procura era stata rilasciata dal cliente al domiciliatario esclusivamente per motivi “tecnici”, di rappresentanza processuale; pertanto, il mandato di patrocinio non proveniva dalla parte, ma dal legale di quest’ultima, il quale aveva inteso avvalersi della prestazione professionale altrui per il compimento degli atti fuori foro.
Secondo tale ragionamento, quindi, l’obbligo di corrispondere le prestazioni professionali spetta al primo avvocato incaricato direttamente dal cliente.
Oltre a questa ipotesi, è bene sottolineare che esistono casi in cui l’assistito intende rilasciare la procura ad litem ad ambedue i legali; in siffatta circostanza, dunque, l’obbligazione di pagamento rimane in capo alla parte.
La valutazione sulla sussistenza di una di queste due fattispecie deve effettuarsi, singulatim, caso per caso. Si tratta di una questione di fatto, sottratta al sindacato del giudice di legittimità.
Nell’ipotesi in commento, i giudici di merito hanno acclarato gli effettivi rapporti instauratisi tra le parti, è stata dimostrata l’assenza di qualsivoglia contatto tra il domiciliatario ed il cliente ed il fatto che il mandato al patrocinio gli fosse stato affidato dal primo professionista.
La Suprema Corte, ritenendo la motivazione della sentenza appellata esente da vizi logici, l’ha confermata, ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della controparte.
A corollario di quanto sopra esposto, si ricorda che l’art. 43 del Codice deontologico forense [5] (art. 30 del precedente codice deontologico) dispone che: «l’avvocato che incarichi direttamente altro collega di esercitare le funzioni di rappresentanza o assistenza deve provvedere a compensarlo, ove non adempia il cliente. La violazione del dovere di cui al precedente comma comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura».
Sul punto si è espresso recentemente anche il Consiglio Nazionale Forense[6] , il quale nel confermare la propria consolidata giurisprudenza, ha ribadito che spetti al dominus corrispondere il compenso al domiciliatario, qualora non vi adempia l’assistito, pena la censura.
Pertanto, al di là delle valutazioni strettamente giuridiche in ordine alla sussistenza o meno del mandato al patrocinio, è bene rammentare anche quanto dispone il codice deontologico